Associazioni ed esperienze al tempo dello Spallanzani.

VALENTINA MARCHESIN - PSICOTERAPEUTA PSICOANALITICA - ARTICOLO CORONAVIRUS psicologo-online

Associazioni ed esperienze al tempo dello Spallanzani. (01/04/2020)

Il virus di oggi si è dimostrato molto democratico, ha esposto tutti in egual misura, alle proprie paure e difese più profonde. Quello che inizialmente sembrava difensivamente rassicurante, almeno tra i più giovani, ossia il fatto che ci fosse una fascia della popolazione più a rischio, sembrava proteggere dal pensiero “può capitare anche a me”, ma poi abbiamo visto che non è così. Tutti, giovani, meno giovani, in salute o deboli potevano venire contagiati. Il rischio di venire invaso da un nemico invisibile diventa allora una realtà possibile, vicina; si concretizza una delle paure più recondite dell’essere umano, sentirsi impotente dinnanzi al rischio di ammalarsi, di venire isolato e il pensiero della morte si affaccia alla nostra mente. Un pensiero quest’ultimo, che fortunatamente nella “normalità” della nostra vita non ci troviamo a pensare abitualmente. Però oggi chiusi in casa, esposti al continuo susseguirsi di notizie sul dilagarsi del contagio, sugli asintomatici come vettori incontrollabili di malattia, sui cluster di sintomi che ci fanno ascoltare con più angoscia la qualità del nostro respiro, ecco che il pensiero della morte come parte della nostra vita ci appare alla mente come qualcosa di perturbante.

Proprio il ripensare al saggio di Freud del 1919 Il Perturbante, mi fa affiorare un’associazione che sembra assumere una connotazione tragicomica in questo momento; nel saggio Freud riprende alcuni racconti di Hoffmann, in particolare Il Mago Sabbiolino (1816), novella che fa parte della raccolta dei Notturni. La storia ha origine nelle angosce infantili del protagonista Nathanael, un giovane sensibile che fin da bambino è rimasto angosciato per il racconto fattogli dalla bambinaia del mostro che toglieva gli occhi ai bambini che non volevano dormire. Una sera, quando era piccolo, spaventato da questo pensiero, Nathanael va in cerca del padre e si ferma a spiarlo da dietro una porta, mentre quest’ultimo si adopera in esperimenti di natura alchemica in compagnia dell’avvocato, amico di famiglia, Coppelius. Quest’ultimo però per aspetto e modi di fare, spaventa molto i bambini, tra cui lo stesso Nathanael che, scoperto a spiare, viene minacciato proprio di essere accecato, mentre il padre interviene per difendere il figlio. L’immagine paterna appare già qui scissa nelle sue due componenti, protettiva da un lato e minacciosa dall’altro, incarnate rispettivamente dal padre biologico e da Coppelius. Una volta divenuto giovinotto, il protagonista incontra, nella piccola città universitaria in cui studia, il grande scienziato italiano Lazzaro Spallanzani, che nel racconto assume il ruolo di mago della scienza ed inventore. Ad una più profonda analisi, quest’ultimo sembra rivestire anche una delle due parti scisse della figura paterna, nel mondo interno del protagonista, quella rappresentante la parte buona e protettiva in contrasto con l’altra minacciosa e castrante rappresentata da un venditore ambulante di occhiali che si aggirava per la medesima città, che curiosamente si chiamava Coppola, andando proprio a risvegliare in Nathanael molte delle sue angosce infantili.

Ecco la mia curiosa associazione, in questi giorni, l’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” è al centro dell’emergenza Coronavirus come punto di rifermento per gli aggiornamenti circa l’evoluzione pandemica da Covid-19, portatore quindi di notizie scientificamente valide sebbene spesso drammatiche. Tralasciando le ulteriori sfaccettature dell’omonimo personaggio della Novella, sembra che, inconsciamente, anche in questo caso, lo Spallanzani richiami alla mente un’immagine paterna autorevole, a cui potersi affidare in questo momento di paura e di incertezza, spesso amplificato dal senso di confusione e precarietà che sta dilagando tra le persone e attraverso i più diversificati canali mediatici mossi dal bisogno eccitatorio del “fare notizia”.

In questo momento, credo ci faccia vivere il “familiare come estraneo” anche il fatto che l’Altro, prima vissuto come familiare, amico, conoscente o sconosciuto oggi rappresenti anche colui che può essere pericoloso, infetto e da dover tenere lontano. Ecco allora che la “normalità” di oggi ci impone il distacco, la solitudine, la perdita, il contatto con le paure più profonde. Piccoli gesti che caratterizzano la nostra quotidianità, ci mostrano, con straordinario impatto, come qualcosa sia cambiato dentro di noi. Andare a fare la spesa, spesso un’azione fatta di fretta e nei ritagli di tempo o al contrario un lusso che ci permettevamo andando alla ricerca della prelibatezza proprio in quel piccolo negozietto che ci piace tanto, oggi ha assunto un carattere ansiogeno, quasi disturbante. Dobbiamo fare una “spesona” che il più delle volte si traduce nel prendere doppioni di cose che abbiamo già in gran quantità e beni a lunga conservazione, come le provviste da bunker antiatomico. Tutto questo ha un sapore certamente diverso dalle prelibatezze del nostro negozietto preferito. Allora un po’ ci adattiamo ma un po’ viviamo il senso di privazione che tutto questo comporta. Cambia anche il gusto dell’esperienza, se incontriamo qualcun altro al supermercato, dentro di noi si scatena una battaglia, da un lato la felicità, probabilmente legata al nostro essere animali sociali, nel vedere un altro essere umano, di scambiarci un’occhiata, mezza coperta dalla mascherina ma che fa sentire un po’ vicini. Dall’altro lato, però, quella stessa persona diventa un possibile nemico da evitare, ci fa sentire nuovamente in pericolo e ci viene voglia di scappare in un’altra corsia del supermercato.

Ma se tutto questo è dolorosamente attuale, non possiamo dimenticare come in fondo possa rappresentare anche un’opportunità di ri-conoscere queste parti di noi stessi, con la possibilità di costruire una “casa per il drago”. Credo che siano proprio i piccoli pazienti in terapia quelli più capaci di esprimere questa immagine. Quando un bambino in psicoterapia inizia a giocare con gli animali, sai che qualcosa di importante sta accadendo, ecco che entra in scena il dinosauro. L’animale più arcaico, grande, forte, aggressivo, pericoloso e spaventoso, esattamente come il vissuto di quel bimbo e forse di ognuno di noi. Dopo aver lasciato il campo alla distruzione del dinosauro che attacca gli altri animali, gli oggetti della stanza mettendola a soqquadro e aver provato ad attaccare anche la terapeuta, in questo momento anche per via telematica per esempio tagliandola fuori dall’inquadratura o gettando il telefono con lei dentro in un angolo, la quale però rimane necessariamente viva, accade una cosa molto importante. Il piccolo paziente e la sua terapeuta cominciano a pensare che forse anche questo dinosauro ha bisogno di una casa in cui potersi sentire accolto e forse solo così potrà sentirsi meno spaventato ed arrabbiato.

La rabbia, la paura, il sentirsi impotenti, in pericolo e soli sono forse le paure che fin da piccoli accompagnano le fantasie dei bambini, ma la possibilità di sentire queste emozioni e dar loro un nome è come poterci permettere di accoglierle dentro di noi, dar loro una casa, così da essere meno oscure e pericolose nella nostra mente e di conseguenza in ogni ambito e scelta della nostra vita.

L’esperienza della caducità può essere vissuta come un lutto, la perdita della bellezza, della sicurezza, il senso di transitorietà può esporre a due moti dell’animo, dice Freud nel suo meraviglioso saggio intitolato proprio Caducità del 1915, «L’uno porta al doloroso tedio universale del giovane poeta, l’altro alla rivolta contro il presunto dato di fatto. No! E’ impossibile che tutte queste meraviglie della natura e dell’arte, che le delizie della nostra sensibilità e del mondo esterno debbano veramente finire nel nulla. Crederlo sarebbe troppo insensato e troppo nefando. In un modo o nell’altro devono riuscire a perdurare, sottrarsi ad ogni forza distruttiva.» (Freud, 1915 p. 173). Ma se sappiamo che, aimè, anche le cose dolorose possono accadere, «Una volta superato il lutto si scoprirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima.» (Freud, 1915 p. 173).

Anche l’analisi con i nostri pazienti è stata oggetto di trasformazione in questa situazione di emergenza, il conflitto tra essere presenti come terapeuti, a nostro modo uno Spallanzani, proprio in un momento così difficile e doloroso ma anche il dover accettare di vivere, in modo simmetrico al paziente, le stesse paure ed incertezze.

Nel lavoro analitico l’asimmetria è una caratteristica fondamentale della relazione tra analista e paziente, grazie alla quale è possibile per il paziente scivolare progressivamente su un piano regressivo, rivivendo nel transfert le dinamiche relazionali con le sue figure interne di riferimento, una compenetrazione tra passato e presente che si riattualizza e rivive nella stanza di analisi. Tutto questo però può avvenire in modo utile e costruttivo solo se si ha la “sicurezza” che ci sia qualcuno a tenere la bussola del vascello. Da un lato il paziente ha bisogno di sentire che l’analista rimane sufficientemente solido e vivo per poterlo aiutare ad accogliere, a contenere e digerire i propri vissuti fantasmatici ed emotivi che sono frutto ed oggetto stesso di analisi. Il paziente, il più delle volte inconsciamente, ha il desiderio, la speranza e talvolta anche la paura, che l’analista, come figura affettivamente investita sulla scena del suo teatro personale, possa attraverso la sua capacità analitica, riproporgli un’esperienza trasformativa, diversificandosi quindi da una mera riedizione identica del passato. Dall’altro lato però, anche l’analista ha bisogno di sentirsi capace di avvicinarsi sufficientemente al paziente così da poter sperimentare un’esperienza psichica condivisa ma, allo stesso tempo, ha l’assoluta necessità e aggiungerei, responsabilità, di ritornare a sé stesso, recuperando una funzione analitica di pensiero che, a seconda del momento in cui si trova l’analisi, funga da contenitore delle fantasie, angosce e/o desideri, o da vero e proprio elemento trasformatore dell’esperienza. Oggi, in cui tutti stiamo navigando in un mare agitato, l’angoscia di “perdere la bussola” così come le sicurezze e i punti di riferimento è un sentire comune anche tra analista e paziente, nella loro condizione comune di esseri umani. Un aspetto credo, tuttavia, resti saldamente presente in ognuno di noi come psicoanalista, ossia l’identità analitica e la consapevolezza che la possibilità di pensare e sperimentare ciò che sta accadendo, a noi e ai nostri pazienti, sia uno strumento, oggi più che mai, valido e necessario per navigare in queste acque sconosciute potendo alla fine ritrovarci con delle carte nautiche più ricche di prima.

Lo psicoanalista quindi si ritrova a pensare “chi sono all’epoca del coronavirus?”, questo forse un vero regalo del Covid-19, la persona che c’è dietro ad ogni medico oggi prende spazio sulla scena dell’analisi. Ecco che l’asimmetria, da questo punto di vista, viene meno e ci si sente più simili ai nostri pazienti, esposti alle acque tormentate della paura e dell’incertezza per l’oggi e per il futuro, ci si sente tutti fragilmente umani. A volte c’è la sensazione di aver perso il senso del tempo, facciamo fatica a spingerci troppo in là con i progetti per il futuro, sebbene il desiderio sia grande di tornare alla nostra “normalità” e festeggiare lo scampato pericolo; poi ritorniamo alla realtà e non abbiamo risposte certe che ci permettano di fare previsioni e che in un certo senso bloccano anche la fantasia, intrappolandoci in un aggiornamento continuo sull’andamento del presente. Ma pensare al futuro è fondamentale, rappresenta una costruzione della mente che interseca come in una tela, aspetti consci ed inconsci, desideri, fantasie, paure e realtà, rappresenta una funzione vitale per la sopravvivenza del Sé e della specie (Bollas, 2018).

Ecco allora che oggi lo psicoanalista si ingegna, affrontando dubbi, perplessità e resistenze ma si affida al suo strumento, il pensiero, per ri-costruire uno spazio di senso e di pensabilità. Sebbene analisti e pazienti sappiano quanto sia importante il setting, inteso come spazio reale, definito, sicuro e prevedibile, proprio quello che oggi è sotto attacco, sappiamo anche che il setting è molto di più. Il setting è anche un assetto interno all’analista, la sua capacità di riuscire a pensare, a “tenere la bussola” anche nel mare agitato, è una relazione chiara, definita e reale che oggi trova un modo di sopravvivere anche a distanza, proprio perché c’è la possibilità di recuperare lo spazio del pensiero e di “trovare il modo” per andare avanti. Tutto questo credo sia un’esperienza importante che vivono anche i nostri pazienti, vedono che anche lo psicoanalista è vivo e vive la scomodità del cambiamento, repentino e drammatico, a cui ha dovuto far fronte, come tutti gli altri. Ma i pazienti stessi sono protagonisti di questo aggiustamento, che un po’ si trovano a subire, perché l’analista non è più al suo posto, ma allo stesso tempo, un po’ possono governare decidendo o non decidendo come agire. Questa situazione di emergenza credo ci abbia fatto alzare tutti dalle nostre sedie comode, gran parte delle sedute ora avvengono in via telematica, a volte si è mantenuto lo stesso spazio, altre volte ci si è trovati ad abituarsi ad una nuova postazione, ad uno schermo da accendere e spegnere, alla linea talvolta intermittente che non può essere imputata ad un movimento inconscio anche se, a volte, ci sembra essere parte stesso del materiale di analisi. Anche i nostri pazienti si sono dovuti abituare, e qualcuno non si è abituato affatto, ad avere perso “momentaneamente” il Suo spazio ed il Suo momento privato. Tutto questo non è certo privo di difficoltà, conflitti ed ambivalenze ma apre anche a nuove possibilità. Questa situazione di isolamento e scomodità, nella migliore delle ipotesi, potrebbe fungere da stimolatore di pensieri sia nell’analista che nel paziente, perché abbiamo la possibilità di spingerci oltre lo spazio conosciuto di noi stessi, conquistando e mettendo in luce nuovi territori, fatti di pensieri, fantasie ed emozioni, forse un “conosciuto non pensato”; ciò che Bollas descrive magistralmente come quell’esperienza, quel qualcosa che in qualche modo conosciamo ma che non siamo ancora riusciti a dargli una rappresentazione mentale, a pensarlo (Bollas, 1989).

Con alcuni pazienti, è stato importante portare in evidenza la questione emergenziale perché li ha aiutati a riconoscerla meglio anche dentro loro stessi, mostrando quasi un senso di sollievo e gratitudine per il fatto che qualcun altro avesse dato voce alle loro preoccupazioni, legittimandole. Altri hanno scelto di sospendere con un “grande arrivederci” a quando tutto questo sarà finito, di questi mi chiedo chi ritroverò. Ogni paziente ha deciso attivamente se continuare o meno a pensare, all’interno del rapporto analitico, a quanto sta accadendo fuori e dentro di Sé. Ma questo passaggio di status, da vicino a distante, è come se fosse stato una faglia attorno alla quale le scosse più forti si sono fatte sentire.

Alcuni temi emersi nella fase di passaggio, sia per coloro che li hanno “usati” per interrompere, sia per coloro che hanno sentito il bisogno di viverli all’interno del rapporto analitico sono stati certamente legati all’ansia, all’incertezza, all’angoscia ma anche il senso di abbandono, la solitudine insieme alla rabbia e alla voglia di ribellarsi. Ci sono poi le esperienze di pazienti che si sono trovati a vivere un lutto dentro al lutto, perdere la madre o il padre per cause indipendenti dal coronavirus ma che, a causa del virus, non hanno potuto essere loro accanto, salutarla/o e poter sentire dentro di Sé di aver fatto di tutto; magari proprio in un momento dell’analisi in cui stavano ricostruendo un legame interno con loro. A tutto questo si aggiunge la “perdita” del contatto con l’analista. In queste situazioni, può accadere che il paziente inizi a pensare di non voler continuare l’analisi “a distanza” adducendo motivazioni razionali ma comprensibili, come il fatto di non gradire il cambio di setting, essere presi da preoccupazioni contingenti e non aver voglia di pensare. Come dar loro torto, ma come terapeuti sappiamo che sotto c’è molto di più, il dolore della perdita, la rabbia ed il senso di colpa di non esserci stati, sappiamo che sono dei “buchi” di senso e di pensabilità, come sapientemente li ha descritti un paziente. A quel punto capisci che non si tratta “semplicemente” di proseguire un’analisi adattandosi ad un canale diverso ma ti rendi conto che proprio mantenere in vita il legame è l’analisi in quel momento. Penso che situazioni come queste mostrino come, il peso della coppia analitica al lavoro sia più significativo del dove lavora.

Le emozioni in questo momento sono tante ed intense, vissute come psicoanalisti ma credo possano ben rappresentare anche il vissuto di molte altre persone. Gli estremi tra cui mi sembra si sia oscillato spesso, in questi giorni, sono stati il negare l’angoscia del contagio, del pericolo e dell’incertezza futura affidando onnipotentemente al nostro ruolo, il bisogno di salvezza del paziente ma forse anche il nostro bisogno di sentirci salvi. Dall’altro lato, il sentirsi presi dall’ansia per la propria incolumità, forse con il rischio di non riuscire a pensare veramente a quanto stava accadendo nel proprio mondo interno. Entrambe queste posizioni, forse, hanno contribuito anche ad arroccamenti difensivi circa le proprie decisioni, per questo credo che poter mantenere aperta, viva e creativa la dialettica con Sé stessi ma anche tra colleghi, nei gruppi e con i supervisori sia un momento fondamentale, sia per dare ordine ai pensieri ed alle emozioni turbolente che abitano in noi, ma anche per affrontare i dubbi e le esperienze che si incontrano nella pratica clinica “a distanza”. Tutto ciò, se affrontato e discusso, può fungere da nuovo materiale psichico a nostra disposizione anche per il futuro, quando vicinanza e distanza ritorneranno ad essere questioni di natura primariamente intra-psichica o inter-psichica più che inter-personale.

Certo è, che il mondo attuale è entrato prepotentemente nella stanza di analisi e questo fatto non può essere ignorato, la simmetria con il paziente in quanto essere umano e cittadino è stato, a mio avviso, un elemento a cui pensare in questa situazione. Credo che le scelte attuate come analisti in questo momento, abbiano rappresentato anche uno svelamento di noi stessi come persone.

Parimenti ritengo che la funzione analitica, a cui possiamo far ricorso dentro di noi ed attraverso il dialogo con la nostra comunità scientifica, che funge da coadiuvante per mantenere una salda e allo stesso tempo creativa capacità di pensare, faccia sì che la necessaria asimmetria del rapporto analitico venga salvaguardata, permettendo il proseguo del lavoro terapeutico.

L’uso dei supporti telematici, con cui la psicoanalisi oggi si è dovuta cimentare, in modo massiccio, penso rappresenti una nuova esperienza emotiva con cui familiarizzare, oltre che pratica.

Mi sono anche ritrovata a riflettere più volte sul fatto che il lavoro analitico, mediato da uno schermo, risulti molto spesso, per lo psicoanalista, più faticoso “a fine giornata”. I motivi credo siano diversi, dall’impegno costante di mantenere il contatto supervisionando la linea, il sentire di dover familiarizzare con un mezzo a cui non siamo abituati ma anche essere noi soli fisicamente nella stanza, senza il nostro compagno di viaggio, il paziente. Ho molto apprezzato i suggerimenti per il “setting domestico” che ho letto in questi giorni, dal pensare allo sfondo per le videochiamate, ad avere una buona illuminazione e possibilmente una finestra verso cui poter volgere lo sguardo per mantenere una certa dose di attenzione liberamente fluttuante, come suggerito da J.S. Schariff, ma anche come posizionarsi davanti alla telecamera modulando vicinanza e distanza per evitare l’effetto “faccione” che potrebbe essere spiazzante per i pazienti, come ha detto acutamente Stefano Bolognini.

Ma oltre a tutto questo, ho pensato che anche lo psicoanalista “si osserva” al lavoro in questa situazione, perché nonostante si possa girare lo schermo e staccare la telecamera, c’è una piccola finestrella nel video che rimanda proprio l’immagine dell’analista. Questa è una percezione diversa dall’Io osservante che attiviamo solitamente in seduta, è una percezione di Sé più diretta e svelata, alla quale non siamo forse così abituati e anche questo credo implichi un ulteriore faticoso lavoro di auto-analisi.

Un gran numero di psicoanalisti già si erano interessati all’uso ed alle potenzialità di questi strumenti, offrendoci un’esperienza che ha contribuito a non farci prendere completamente impreparati, ma il vissuto personale che abbiamo avuto, cimentandoci direttamente con questi canali ed i rimandi di ogni singolo paziente, credo occuperanno la nostra stanza d’analisi “vera” per molto tempo. Non potrebbe che essere così, affinché quest’esperienza non venga semplicemente smantellata, come gli ospedali da campo, alla fine dell’emergenza, ma che allo stesso tempo non diventi automaticamente una nuova realtà, perdendo i suoi caratteri di eccezionalità che l’hanno invece resa così faticosa ma allo stesso tempo utile e stimolante.

Bibliografia

Bollas C. (1989). L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato. Borla Roma

Bollas C. (2018). L’età dello smarrimento. Senso e malinconia. Raffaello Cortina Editore

Freud S. (1915). Caducità. OSF VIII. Bollati Boringhieri Torino

Freud S. (1919). Il perturbante. OSF IX. Bollati Boringhieri Torino

Dott.ssa Valentina Marchesin

Psicologa Clinico-dinamica
Psicoterapeuta Psicoanalista SPI­­
Professore a contratto presso Università di Padova